venerdì 17 agosto 2018

Villette


Autrice: Charlotte Bronte

Lingua: italiano

Genere: romanzo

Prima pubblicazione: 1853






L'anno scorso, dopo circa vent'anni, ho riscoperto Jane Eyre e l'ho adorato. Ho quindi voluto leggere altri romanzi di Charlotte Bronte per me inediti, come Shirley e Villette.
Se il primo mi era sembrato ammantato da un velo di opprimente malinconia, il secondo è chiaramente, sin dall'inizio, scritto da una mano disillusa.

L'autrice, alla sua stesura, aveva subito gravi lutti familiari, e ciò, unito forse a nuove considerazioni sulla vita, ha contribuito alla creazione di un romanzo cupo e pessimista, che spesso mi è sembrato così opprimente da rendermi la lettura intollerabile.

La protagonista della storia è Lucy Snowe, una ragazza che, dopo una difficile infanzia e con un futuro incerto dinanzi a sé, decide di imbarcarsi per il continente, ed arriva così in Francia, dove riesce a farsi assumere come insegnante in un collegio. Nella immaginaria cittadina di Villette incontrerà le sue vecchie conoscenze inglesi, si crederà innamorata, dovrà tener testa alla direttrice Madame Beck e alle sue allieve e, per qualche tempo, riuscirà anche ad essere felice, di quella felicità che solo l'attesa di tempi migliori riesce a dare.

Lucy ha alcune caratteristiche che la avvicinano a Jane Eyre, come il ruolo di insegnante, e soprattutto il coraggio di prendere in mano la propria vita e di fare scelte rischiose.
Tuttavia, laddove Jane era appassionata e impetuosa, Lucy è piatta, rassegnata e silenziosa.
Non sono riuscita ad amare questo personaggio, e neppure a provare empatia. Qualche volta mi è sembrato che quasi godesse nel crogiolarsi nel proprio pessimismo. Non cercata dai suoi amici, non avrebbe potuto cercarli lei stessa? Non avrebbe potuto scrivere alla sua madrina e far entrare così uno sprazzo di mondo esterno nel cupo e soffocante pensionnat?


E' anche vero che tutte le persone che circondano Lucy sembrano in qualche modo egoiste e concentrate su se stesse, a partire dall'amabile madrina, che pare dimenticare ed abbandonare la sua pupilla quando la vita offre qualcosa di più interessante, al dottor John, di cui tutti hanno un'elevatissima opinione, ma che nasconde dietro il bel viso e l'ammirevole professione, una personalità vuota, a tratti narcisistica, e pensieri tutt'al più superficiali.
Lucy non crede possibile che proprio lei possa essere felice, così strenuamente incolpa la Ragione di non lasciarle "sollevare gli occhi né sorridere né sperare". In tal modo sceglie di non concedersi mai, nemmeno per un attimo, la gioia che potrebbe illuminare le sue giornate, cupe e spente come gli abiti che si ostina ad indossare e che sono un ulteriore elemento di isolamento rispetto al mondo circostante.

Charlotte Bronte è bravissima, come sempre, a tracciare le personalità di ognuno dei suoi personaggi, la temibile Madame Beck, la vacua Ginevra (la cui vicenda mi ha ricordato, alla fine, quella di Lydia Bennet dell'austeniano Orgoglio e pregiudizio), e riesce a rendere il cambiamento che può verificarsi in una persona raccontandoci il carattere della piccola Polly e la sua metamorfosi nella giovane Paulina.
Il personaggio più importante per la vita di Lucy, M. Paul Emanuel, è riuscito a starmi simpatico solo alla fine, quando finalmente è venuta fuori la sua tenerezza e il suo buon cuore, mentre per tutto il romanzo l'ho trovato sgradevole, saccente e odioso, anche per il suo bisogno di domare una Lucy da cui si sentiva attratto.

Ciò che mi è piaciuto meno riguardo alla trama, è stato quel continuo rincorrersi di coincidenze. Se già in Jane Eyre non mi era andata giù che la protagonista fosse accolta proprio da quelli rivelatisi suoi parenti, qui Lucy incontra, in un piccolo paesino francese, tutte le sue conoscenze inglesi, e naturalmente viene fuori un rapporto di parentela. Inoltre, ad un certo punto, possiamo assistere ad una temporanea virata verso il genere gotico - la questione della suora -, che mi ha fatto temere il peggio e mi ha ricordato le atmosfere de I misteri del castello di Udolpho.

Nonostante le innegabili doti da scrittrice di Charlotte Bronte - in questo Villette, basti solo pensare alla descrizione del naufragio -, ho trovato il romanzo troppo lungo e negativo, senza un minimo spiraglio per la speranza. Non lo rileggerei e non mi sentirei di consigliarlo.

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La copertina: bella. Mi piace molto il modo in cui sono strutturate le copertine dei romanzi editi da Fazi: sono sempre sobrie, eleganti ed adatte al contenuto.

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Trama: Per potersi riconoscere veri non si deve piacere al mondo, ma essere amati da chi si ama, ecco l'esito dell'ultimo e più intenso romanzo di Charlotte Brontë, magistrale compimento dell'opera di una fra le più interessanti autrici dell'Ottocento letterario inglese. 
Pubblicato nel 1853, Villette è l'ultimo romanzo di Charlotte Brontë, l'unico che non si concluda con il matrimonio della protagonista, l'unico che abbia come titolo un luogo. Villette (immaginaria città del Continente in cui si adombra Bruxelles) rappresenta infatti un luogo fisico e una regione dell'anima: luogo della vita e della morte, della perdita e della speranza, ultima terra dove può realizzarsi l'amore. "Come sopportare la vita", aveva chiesto Charlotte all'amato professor Héger: Villette è, in un certo senso, la magistrale risposta a questa domanda. Villette, vero e proprio addio al tempo terreno, non è solo il romanzo "più bello", ma il romanzo più profondo di Charlotte Brontë.

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Giudizio personale: 2/5

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